Negli ultimi anni si è osservata nel cinema italiano una marcata tendenza a raccontare epoche passate, in particolare il periodo fascista e l’immediato dopoguerra. Numerosi film recenti — dai drammi storici alle commedie agrodolci — hanno scelto come ambientazione narrativa gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, evocando eventi, atmosfere e temi di quel periodo cruciale per la storia nazionale. Di seguito si approfondiscono tre questioni legate a questo fenomeno: (1) il caso emblematico di C’è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi e il suo rapporto con questa tendenza; (2) il dubbio se l’attenzione al passato derivi da una difficoltà del cinema italiano nel raccontare il presente; (3) altre possibili ragioni — estetiche, produttive, di mercato e simboliche — che spingono molti autori a privilegiare ambientazioni storiche.

1. C’è ancora domani di Paola Cortellesi nel contesto della tendenza retrospettiva

L’esordio alla regia di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, è un esempio paradigmatico di come il cinema italiano contemporaneo guardi al passato, e allo stesso tempo rappresenta un caso particolare all’interno di questa tendenza. Il film è ambientato a Roma nel 1946, all’alba della nascita della Repubblica e del primo voto alle donne, e ricostruisce nei dettagli la vita quotidiana di una famiglia della periferia romana nel secondo dopoguerra. La scelta stilistica di girare interamente in bianco e nero non è solo un vezzo estetico, ma un omaggio consapevole al cinema neorealista dell’epoca. Cortellesi ha dichiarato di aver immaginato i ricordi delle proprie nonne in bianco e nero, adottando persino, nei primi minuti, il formato 4:3 per evocare il cinema del dopoguerra. Questo approccio formale richiama apertamente il passato cinematografico italiano, inserendo C’è ancora domani in un dialogo diretto con la tradizione neorealista.

C’è ancora domani utilizza il passato — nello specifico il 1946 — come specchio per riflettere sul presente, affrontando temi attuali come la violenza di genere e la disuguaglianza domestica attraverso la storia di una donna oppressa agli albori del suffragio femminile in Italia. Secondo Cortellesi, l’obiettivo è mostrare ciò che è cambiato e ciò che ancora persiste nella condizione femminile. Questo sguardo conferisce al film una dimensione allegorica che va oltre il semplice dramma storico.

Nonostante sia un’opera in bianco e nero ambientata nel passato, il film ha riscosso un successo inaspettato di critica e pubblico: è diventato il film italiano più visto del 2023, con oltre 5 milioni di spettatori. La sua combinazione di impegno sociale, sensibilità femminista e intelligenza narrativa lo ha trasformato in un fenomeno culturale e ha segnato, insieme a Comandante, la rinascita del cinema italiano nel periodo post-pandemico.

Il film della Cortellesi, pur originale, si inserisce dunque in un panorama più ampio di opere italiane recenti che “guardano al passato”. Negli ultimi anni, numerosi registi hanno ambientato i loro film negli anni del fascismo, della guerra o dell’immediato dopoguerra, al punto che alcuni hanno parlato di una “vera e propria tendenza” in atto. Oltre al già citato Comandante (che racconta le imprese di un comandante di sommergibile italiano nel 1940) e a L’ombra del giorno di Giuseppe Piccioni (melodramma ambientato ad Ascoli Piceno nel 1938 durante le leggi razziali), si possono ricordare L’ultima volta che siamo stati bambini (2023) di Claudio Bisio — altro debutto registico di un attore noto — che affronta le leggi razziali fasciste del 1938 attraverso gli occhi dei bambini. Alla Mostra del Cinema di Venezia ha partecipato Lubo (2023) di Giorgio Diritti, storia di un nomade jenisch nella Svizzera del 1939. Saverio Costanzo ha presentato nel 2024 Finalmente l’alba, ambientato nella Cinecittà dei primi anni Cinquanta.

Parallelamente, la TV pubblica produce serie tratte da romanzi storici, come La Storia (dal libro di Elsa Morante) diretta da Francesca Archibugi e ambientata nella Roma degli anni Quaranta. Anche produzioni e set internazionali scelgono quell’epoca come scenario: Claudio Giovannesi ha girato Hey Joe, con James Franco nei panni di un marinaio approdato nella Napoli del 1944 devastata dai bombardamenti. E l’elenco continua: dai “treni della felicità” del dopoguerra (Il treno dei bambini di Cristina Comencini), alle vicende di piccoli migranti italiani verso l’America nel 1947 (Napoli-New York di Gabriele Salvatores); dalle sorelle delle montagne trentine nel 1945 (Vermiglio di Maura Delpero), alla storia vera di un funzionario che salvò opere d’arte dai nazisti (Pasquale Rotondi: un eroe italiano). Anche storie ottocentesche legate al Risorgimento e alla Seconda guerra mondiale tornano in progetti futuri: Matteo Rovere sta preparando Il sergente nella neve (dal memoir di Rigoni Stern sull’Armir in Russia), e i fratelli De Serio Il principe Aden, sulla storia di un soldato somalo dell’esercito fascista. Da non dimenticare Le assaggiatrici di Silvio Soldini — ispirato alle giovani costrette ad assaggiare il cibo di Hitler — e Attenti al lupo di Carmine Amoroso, che racconta la persecuzione di un centinaio di omosessuali italiani confinati sotto il regime. Si tratta, in definitiva, di decine di opere in lavorazione incentrate sul periodo bellico e pre-bellico. C’è ancora domani, con la sua ambientazione nel 1946, appartiene pienamente a questo “ritorno al passato”; ma la sua enorme accoglienza popolare e la prospettiva esplicitamente attuale con cui rilegge quel passato lo rendono anche un caso unico nel panorama contemporaneo.

2. Focus sul passato e difficoltà nel raccontare il presente?

Di fronte a questa moltiplicazione di film storici, ci si chiede se il cinema italiano odierno privilegi il passato anche a causa di una difficoltà – o persino un’incapacità – nel raccontare il presente. Il dubbio è che gli autori contemporanei trovino il presente troppo complesso, frenetico o scoraggiante per essere rappresentato efficacemente sullo schermo, rifugiandosi così in epoche già conclamate dove i conflitti risultano più nitidi.

Uno sguardo al passato del nostro cinema evidenzia un cambiamento: grandi maestri come Roberto Rossellini o Vittorio De Sica negli anni ’40 e ’50 portarono sullo schermo il loro tempo presente – la guerra, la povertà del dopoguerra, le macerie morali e materiali – inaugurando il neorealismo. Film come Roma città aperta (1945) o Ladri di biciclette (1948) nascevano dall’urgenza di testimoniare una realtà contemporanea dolorosa, senza filtri. Negli anni ’60 e ’70 autori come Elio Petri, Dino Risi o Ettore Scola hanno spesso letto criticamente la società del loro tempo: basti pensare a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Petri, 1970), graffiante allegoria sul potere e gli abusi nell’Italia contemporanea, o a C’eravamo tanto amati (Scola, 1974) che ripercorre trent’anni di storia italiana fino al boom economico, con spirito satirico e malinconico verso il presente degli anni ’70. Questi cineasti erano capaci di usare il cinema come “specchio” immediato del paese, cogliendone vizi, mutamenti e tensioni ideologiche quasi in tempo reale.

Oggi, invece, molti osservatori notano una certa reticenza nel cinema italiano a fotografare la realtà attuale con la stessa lucidità. Il critico Gianni Canova ha rilevato che quando il nostro cinema prova a raccontare direttamente la politica o la società contemporanea, spesso “rompe gli argini del realismo e slitta quasi sempre verso il grottesco o l’apologo”, come se non riuscisse a rappresentare il presente se non in chiave deformata o allegorica​. Al di là di poche eccezioni virtuose, è un dato di fatto che soprattutto negli ultimi anni il cinema italiano si è rivelato perlopiù incapace di raccontare il presente del proprio Paese​. Questa constatazione, piuttosto severa, porta a interrogarsi sulle cause. Da un lato potrebbero influire scelte produttive: i produttori sembrano orientati verso prodotti più “leggeri” o comunque non troppo politici, ritenendo (forse a ragione) che incontrino più facilmente il favore del pubblico​. In un contesto sociale già esasperato da divisioni e sfiducia verso le istituzioni, puntare su film di puro intrattenimento o su temi storici condivisi può apparire meno rischioso che affrontare di petto le contraddizioni dell’Italia odierna. Si instaura così un circolo vizioso: il pubblico viene poco stimolato da narrazioni sull’attualità, e al contempo l’industria tende a non investirvi perché convinta di uno scarso interesse, alimentando disaffezione e superficialità nel dibattito culturale​. Va anche considerato che il presente è, per sua natura, più difficile da decifrare e condensare in una storia. La realtà odierna è fluida, iperconnessa, dominata da fenomeni nuovi (si pensi all’impatto dei social media, all’immigrazione globale, alla crisi climatica) che mutano rapidamente. Un film richiede anni tra scrittura, riprese e distribuzione: nel frattempo il “presente” potrebbe già essere cambiato, rendendo datato o meno rilevante il soggetto iniziale. Raccontare il 2025 mentre lo si sta vivendo richiede un notevole sforzo di analisi e anche una dose di rischio creativo. Al contrario, il passato offre allo sceneggiatore vicende già compiute, contesti definiti in cui inserire personaggi e drammi con maggiore sicurezza narrativa. Le epoche passate hanno contorni più stabili: il pubblico conosce almeno per linee generali lo scenario storico (es. il fascismo, la guerra, la ricostruzione) e questo facilita la comprensione del conflitto rappresentato sullo schermo. Un cattivo dichiaratamente fascista o un’ingiustizia palese come le leggi razziali del ’38 offrono antagonisti e drammi “chiaroscurali” già scolpiti dalla Storia, probabilmente più netti di quelli rintracciabili nell’Italia odierna, dove i problemi possono apparire più sfumati o ambigui.

Infine, non va sottovalutato che affrontare temi contemporanei in Italia può significare toccare nervi scoperti e dividere il pubblico. I nostri cineasti potrebbero temere le polemiche immediate che un film sul presente può scatenare (basti pensare alle reazioni viscerali che temi come l’immigrazione, la politica o la cronaca nera suscitano nel dibattito pubblico). Ambientare una storia nel passato permette forse di sfiorare indirettamente questioni attuali evitando lo scontro frontale. Ad esempio, un film sulle persecuzioni degli ebrei o degli omosessuali durante il fascismo (Attenti al lupo in progetto) può essere letto come un monito universale contro tutte le discriminazioni, ieri come oggi, senza però dover rappresentare gruppi o figure politiche viventi. In tal senso, il ricorso al passato può essere visto anche come una strategia narrativa: raccontare oggi il fascismo, la Resistenza o il dopoguerra in chiave metaforica per parlare dell’oggi (della deriva autoritaria, della resistenza civile, delle crisi economiche odierne) con un filtro storico che renda il messaggio più accettabile e meditativo.

In definitiva, sembra plausibile che almeno una parte dell’attuale orientamento verso film d’epoca derivi da un vuoto di sguardo sul presente. Come osserva amaramente uno studioso, l’Italia cinematografica contemporanea fatica a rappresentare “l’attuale situazione del nostro Paese”, specie sul versante politico-sociale, preferendo spesso volgere lo sguardo altrove​. Se i Rossellini e i De Sica facevano cinema nel presente sul presente, oggi molti autori fanno cinema nel presente sul passato. Ciò non è necessariamente un male in assoluto – come vedremo, possono esserci valide ragioni artistiche per questa scelta – ma è indicativo di un cambiamento nella funzione del cinema: meno “cronaca diretta” e più rielaborazione memoriale.

3. Altre ragioni dell’ascesa delle ambientazioni storiche nel cinema italiano

Al di là della difficoltà di rappresentare il presente, il cinema italiano ricorre al passato per ragioni estetiche, produttive, commerciali e simboliche. Esteticamente affascinante, il passato consente ai cineasti di giocare con costumi, scenografie e stili ispirati alla tradizione cinematografica italiana, come ha fatto Cortellesi con il bianco e nero in C’è ancora domani.

Sul piano produttivo, i film storici hanno maggiori possibilità di ottenere sostegni istituzionali, coproduzioni internazionali e finanziamenti culturali. Inoltre, garantiscono visibilità a professionisti del settore (scenografi, costumisti) e rispondono alla domanda di contenuti “premium” da parte delle piattaforme.

Dal punto di vista del mercato, il pubblico mostra un rinnovato interesse per le storie ambientate nel passato, che generano identificazione emotiva, hanno un valore educativo e una lunga durata commerciale. In un panorama saturo di blockbuster, il cinema storico italiano si propone come un’offerta differenziata e culturalmente rilevante.

Infine, il passato viene spesso usato come metafora del presente: molti film recenti si ambientano in epoche come il fascismo o il dopoguerra per affrontare problematiche attuali quali la violenza di genere, i diritti civili o le derive autoritarie, in modo diretto o allegorico. In questo senso, il cinema storico diventa uno strumento per riflettere criticamente sull’oggi attraverso le lezioni del passato.

 
 

4. Uno sguardo oltre confine: il ritorno ai totalitarismi nel cinema internazionale

Il fenomeno del ritorno al passato non riguarda solo l’Italia, sebbene nel nostro paese assuma caratteristiche peculiari legate al contesto storico. In Germania, ad esempio, il confronto cinematografico con il nazismo è un filo conduttore presente da decenni, ma negli ultimi tempi ha assunto forme nuove. Si pensi a Lui è tornato (Er ist wieder da), dove la satira immagina Hitler riapparire nella Germania attuale, tra smartphone e social network: un modo per riflettere, con ironia amara, sulla persistenza di pulsioni xenofobe e autoritarie nel presente.

All’estremo opposto, registi internazionali hanno scelto approcci drammatici per rileggere il totalitarismo in chiave contemporanea: il britannico Jonathan Glazer, con La zona d’interesse (2023), ha raccontato l’orrore di Auschwitz dal punto di vista quotidiano dei carnefici, illuminando la banalità del male in modo originale e sconvolgente.

In Francia emergono periodicamente film sulla Shoah o sul regime di Vichy (ad esempio La douleur, del 2017, tratto da Marguerite Duras), a dimostrazione di come ogni nazione europea continui a rielaborare cinematograficamente i propri traumi storici del Novecento. Anche se in Francia non esiste un’ondata equivalente a quella italiana, il tema del passato autoritario riemerge non appena si parla di identità nazionale e memorie scomode (basti ricordare il dibattito ancora vivo intorno al film cult L’armée des ombres del 1969, riscoperto anche dalle nuove generazioni come monito antifascista).

Negli Stati Uniti, invece, il ritorno al passato assume spesso la forma della distopia o dell’ucronia, con chiari riferimenti all’attualità. Di recente ha fatto scalpore The Apprentice (2024) di Ali Abbasi, presentato a Cannes, che rilegge l’ascesa al potere di Donald Trump come parabola del fascismo in America. Di fronte alle critiche, Abbasi ha dichiarato: “Non ci sono metafore rassicuranti per affrontare questo momento […], è ora che il cinema torni a essere politico”. Questa presa di posizione — in un contesto molto diverso come quello statunitense — riecheggia lo stesso impulso che muove molti autori italiani: la convinzione che il cinema debba parlare con urgenza del presente attraverso le storie, anche quelle ambientate nel passato.

Non è un caso che serie come The Plot Against America (2020) abbiano immaginato realtà alternative in cui il fascismo attecchisce negli Stati Uniti, mentre film come Jojo Rabbit (2019) abbiano usato la satira per ridicolizzare l’ideologia nazista agli occhi del pubblico di oggi. Si tratta di movimenti paralleli a quelli italiani, tutti sintomo di un clima culturale globale in cui artisti e cineasti avvertono il dovere di confrontarsi con i fantasmi dei totalitarismi, passati o ritornanti.

In conclusione…

Il recente ritorno al passato nel cinema italiano — in particolare al periodo fascista — nasce da un intreccio di motivazioni: dal desiderio di fare i conti con l’identità nazionale e con i nodi irrisolti della memoria storica, al bisogno di trovare nella Storia uno specchio per le inquietudini del presente. I critici riconoscono in questa tendenza un fermento positivo, ricco di sperimentazioni stilistiche (tra commedia nera, melodramma, fantasy storico) e di significati stratificati.

In particolare, film come Vermiglio, L’abbaglio, Campo di battaglia, M e altri mostrano come il cinema italiano stia usando la Storia per parlarci di noi stessi — delle nostre paure attuali, delle derive da evitare, ma anche dei valori democratici da difendere. È un dialogo creativo tra passato e presente, in cui raccontare il “ieri” equivale, in fondo, a interrogarsi sul “oggi” e sul “domani”.

Come ha osservato Roberto Andò, evocare un episodio dimenticato del Risorgimento o una pagina del Ventennio può offrire “un’occasione per vedere i chiaroscuri di quella grande [Storia]” e, per riflesso, prendere coscienza di quelli dell’Italia contemporanea. In un periodo di crisi identitarie e di ritorno dei populismi, il cinema italiano sembra aver trovato nella narrazione del passato uno strumento potente per stimolare la memoria, la coscienza critica e la cittadinanza attiva.

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